Samadhi, l’Unione sulla via dello Yoga

Che cos’è il Samadhi? Sin da quando ho iniziato la mia pratica yoga, questa parola ha sempre riscosso in me un certo interesse.
Avendo iniziato la pratica per motivi prettamente spirituali piuttosto che fisici, l’interesse verso gli stati di coscienza che avrei potuto raggiungere con la pratica occupavano un posto speciale nella lista.
Il Samadhi è, più o meno, quello che cerchiamo di raggiungere, quando facciamo Yoga. Non è necessariamente una perfezione fisica, il toccarsi le dita dei piedi con le mani, il vederci salire dritti come una candela quando facciamo la verticale. Il Samadhi, è l’Unione del nostro Sè con il Divino, l’essenza di tutte le cose. Ma cosa significa?

Prima di tutto, forse, dovremo chiederci perchè facciamo Yoga o cosa ci ha spinto a varcare la soglia di quello studio all’angolo della strada, la prima volta. Curiosità? Moda? Una strana chiamata interiore?
Indipendentemente da ciò che è avvenuto quella prima volta, poi, a partire dalla seconda e dalla terza volta in cui abbiamo rimesso i piedi e le mani sul tappetino, qualcos’altro è successo. Forse siamo stati attratti dalle pose del nostro insegnante, da come era capace di controllare alla perfezione il suo corpo e abbiamo ‘desiderato’ averne altrettanto per il nostro. Forse ci siamo sentiti in pace, abbiamo staccato la spina e abbiamo ‘desiderato’ riprodurre quella sensazione nuovamente, tutte le volte che era necessario. Forse ci siamo emozionati, abbiamo rilasciato tensioni, ci siamo sentiti liberi e abbiamo deciso che volevamo esserlo ancora. Tante cose possono accadere quando mettiamo i piedi sul tappetino e diamo al nostro corpo la possibilità di esprimersi.

Di fatto, l’uomo è sempre stato ed è ancora alla ricerca di un suo sé che vada oltre l’aspetto ‘mondano’ in cui è rilegato. Tuttavia, per poter trascendere l’aspetto mondano di sé ha, necessariamente, bisogno dell’esperienza terrena.
Il viaggio dello Yoga è il viaggio con cui è possibile trascendere il sé mondano per cercare di raggiungere quel sé ‘ultraterreno’ che risiede in ognuno di noi e a cui ambiamo e con questo unirsi. Questo è Samadhi.

A livello, per così dire, tecnico, la parola sanscrita Samadhi è composta da due termini, ‘sama‘ che significa uguale e pari, e ‘adhi‘ che significa aderire o attenersi. Quando li metti insieme significano stati uguali di coscienza e l’unione di tutti gli aspetti del nostro essere: fisico, spirituale, mentale ed emotivo. Significa anche beatitudine suprema, supercoscienza e illuminazione. Da molti Maestri questo stato di ‘illuminazione’ – che può essere assimilato al Nirvana per il Buddhisti o al Tao per i Taoisti – viene anche chiamato Danza di Shiva, ovvero uno stato intuitivo e naturale in cui percepiamo di far parte alla danza cosmica.

Secondo Patanjali, uno dei maestri più importanti, il Samadhi è il culmine di un processo che comprende comportamenti etici (yama e nyama), asana (controllo del corpo attraverso posizioni yoga), pranayama (controllo del respiro), stati di concentrazione focalizzata chiamati comunemente ‘meditazione’ (pratyahara, dharana, dhyana) dove abbiamo un ritiro dei 5 sensi in funzione di una completa fusione nell’oggetto della contemplazione.
Cosa significa tutto questo? In parole semplici: secondo Desikachar, autore di un libro molto consigliato ‘Il Cuore dello Yoga’ «anche quando stai leggendo un libro e sei completamente assorto in ciò che leggi stai, in realtà, meditando» e sei nel Samadhi. Non c’è alcuno sforzo in questo stato dove sono esattamente la storia che sto leggendo e nessun rumore, odore, pensiero può distogliermi da questa fusione.

Il Samadhi non è quindi uno stato di coscienza che raggiungiamo con sforzo, con ardua volontà, ma una siddhi (potere) che si manifesta gratuitamente al verificarsi di alcune condizioni (assenza di pensieri, non-mente). E’ qualcosa si straordinariamente primordiale, che esula dal nostro essere ‘mondano’ e si rifà a qualcosa di puramente naturale e istintivo, qualcosa che abbiamo dimenticato. Il nostro percorso yogico è rivolto al raggiungimento di questo stato di coscienza o non coscienza.

Nella nostra pratica di Odaka Yoga, questo stato di non-mente in cui si può realizzare il Samadhi, è chiamato Hara Tanden, situato nel ventre, tre dita sotto l’ombelico tre dita in profondità. E’ il nostro nucleo centrale, banalmente chiamato baricentro in Occidente. E’ interessante notare come, nella filosofia giapponese, il concetto di Hara sia spesso associato anche al concetto di Arte, che sia l’arte della spada, l’arte della freccia, l’arte del disegno, del tè e via discorrendo. Ovvero a qualcosa che preclude in sé il movimento. Per qualsiasi arte, l’Hara diventa allo stesso tempo il punto da ‘raggiungere’ e la condizione indispensabile per svolgere l’arte affinché il tutto avvenga in completa assenza di sforzo, naturalmente. Così come avviene la meditazione, nella filosofia yogica, in completa assenza di sforzo. L’Arte, per il Giapponese, diventa il veicolo con cui ri-trovare e consolidare l’Hara, il Centro in cui si sviluppa la non-mente, uno stato di profondo equilibrio dove nulla può ferirci e nulla, allo stesso tempo, eccitarci. Hara è uno stato di imperturbabilità. La nostra pratica, di fatto, è una ricerca dell’Hara, e – allo stesso tempo – si verifica mediante esso.

Il concetto di Hara può sfuggire ai più, ma come ci insegnano le filosofie orientali che si servono di sutra e Koan (frasi, parabole senza un apparente senso compiuto a livello logico e linguistico, ma che spingono l’uomo a superare i propri schemi di pensiero) – l’Hara può essere ben inteso superando i propri modelli concettuali. E’ qualcosa che arriva dall’interno.

L’Hara va considerato come il centro di gravità non solo fisico, ma di coscienza e concettuale. E’ il punto in cui si realizza l’Uno e si riducono gli opposti e il punto in cui si equilibrano Cielo e Terra. Che cosa significa questo?

Che attraverso la nostra pratica e il nostro viaggio lo sguardo è rivolto a uguagliare le forze di Terra e le forze di Cielo, in modo tale da non essere mai troppo in alto e mai troppo in basso. E questo vale per tutti gli aspetti della vita. Poiché per ogni cosa siamo stati capaci di creare opposti e identificarci in essi. Buio/Luce; Materia/Spirito; Amore/Odio; Pace/Guerra e via discorrendo.
L’uomo che raggiunge il Samadhi ed è centrato nell’Hara è sia Buio che Luce, sia Materia che Spirito, sia Amore che Odio, sia Pace che Guerra.
L’obiettivo dello Yoga è questo: eliminare gli opposti, essere Uno. Se si ha la fortuna (poiché ci si è impegnati molto) di raggiungere tale stato di coscienza si è Danza di Shiva, parte del concerto cosmico.
Per noi che pratichiamo Odaka, questo stato di non-mente, si verifica anche attraverso il movimento. Se durante una classe vi sentite Uno con il vostro corpo, la vostra mente, il vostro spirito e nulla, veramente nulla, può distogliervi da ciò, sarete nell’Hara, nel Samadhi.

Non starete facendo Yoga, sarete Yoga.

Namaste

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