Come essere un buon yogi se si rompe lo smartphone (e tu non sai perchè)

Valentina Ferrero > Connettiamoci su Instagram @yogavaly

Regola numero uno… INCAZZARSI.

Sì, incazzarsi. Voce del verbo incazzarsi, riflessivo. Incollerirsi, infuriarsi, anche questi riflessivi. Usateli a piacere come più vi conviene, la minestra più o meno è sempre la stessa. Non prendete a botte nessuno, però.

Regola numero due… LASCIAR ANDARE (è quella più importante quindi occhio ai compiti a casa)

Io e la tecnologia non ci siamo mai amate e a volte mi chiedo cosa sia scattato nelle mie cellule cerebrali quando ho accettato di scrivere per un giornale che parlava di startup, intelligenza artificiale, robot, serie numeriche che ti spiano pure mentre dormi e dati.

Big Data per la precisione. Che poi non sono altro che le informazioni che lasciamo in giro per il web, un po’ come le bottiglie di plastica negli oceani (e poi gli animali sarebbero i cani???). E la similitudine già da sola basta a far comprendere quanti danni questi Big Data possono fare… anche se sicuramente fanno meno male della plastica negli oceani.

Ecco, se volete essere dei buoni yogi eliminate le bottiglie di plastica. O almeno fate la raccolta differenziata.

Insomma, ho scritto di tecnologia per un po’. E almeno dici.. boh… che mi fosse servito a capirla…invece manco quello. Anche perchè la tecnologia fa un po’ come vuole lei… non è che tu ne sei padrone. Pensi di esserlo, ma il rapporto è unilaterale e nella padella ci sei tu.

Un po’ come quando al liceo morivi dietro al ragazzo quella 5° B e quando ti sorrideva ti scioglievi come un cono al fiordilatte e in quel momento avrebbero potuto farti qualsiasi cosa.

Avete presente i pupi, le marionette siciliane dell’Ottocento, belle, colorate, meccanicamente perfette… Ecco, noi siamo pupi nelle mani della tecnologia. Questa, alla fine è l’unica cosa che ho capito (prima di lasciare il giornale).

Anche perchè quando il vostro smartphone vi dice addio e voi non sapete perchè, più che manovratori siete marionette, non c’è niente da fare.

E quando mi si è rotto il telefono, l’altro giorno, io proprio un pupo mi sono sentita. Di quelli con la fascia rossa a pois tra i capelli e il naso lungo, un po’ bitorzoluto anche. Per darvi un’idea vi ho lasciato una foto qui sotto, pescata dal Facebook di qualche anno fa, memore di una colorata gita a Palermo.

yama-nyama-santosa

Lui era lì, come ogni pomeriggio. Un po’ scarico perchè solitamente mi dimentico di spegnerlo la notte o semplicemente di caricarlo mentre dormo. Niente di personale, ovviamente, ma quando sono le cinque di pomeriggio lui è già bel che pronto per le sue orette di break.

E il break è quello che gli ho fatto fare, attaccandolo alla presa vicino alla scrivania. Ordinaria routine, insomma, come l’ora del pisolino per un pargolo. Prendi lo smartphone e lo carichi, punto. Una pratica piuttosto banale. Non ti aspetti che, nonostante la carica e una corretta alimentazione, lui rimanga nel torpore perenne e non si risvegli mai più. Neppure con le cannonate.

Così ti INCAZZI. Sì, ti incazzi.
Anche se a yoga ti dicono che le cose le devi prendere con filosofia. Anche se fai merenda con lenticchie, coriandolo e Aparigraha, astenersi dal possesso non è sempre un gioco da ragazzi.

Patanjali la fa facile nei suoi Yama e Niyama: Aparigraha ti dice, non possedere, sii libero dalle cose inutili e non necessarie che distolgono l’attenzione da quella che è la nostra ‘completazione’ spirituale. Perchè se ti attacchi alle cose (ma anche alle persone) poi hai paura di perderle.

Quindi non possedere e Samtosa, sii contento.
Guarda le cose con distacco e sii contento. Anche se ti si rompe il cellulare, così, all’improvviso, senza un perchè, sii contento.

Ok, Samtosa.

Ti ripeti. E non è che sempre ce la fai, perchè le vene ti si ingrossano sulla fronte. Le senti che pulsano sotto la pelle: sono gonfie e turgide. Samtosa.

Che poi io il cellulare non lo vorrei neanche, ma è in questo mondo che vivo. Vivo qui, nel 2019, immersa nello sviluppo tecnologico e nei tram pieni delle 8.00 del mattino, anche se sarei dovuta nascere quando è nata mia madre. Quella sì che è stata una bella generazione.

Però, Samtosa, come dice Patanjali: sii contento.
Alla fine è solo un pezzo di plastica, con parti metalliche che emettono imput. E se per caso mi si ferma la macchina per strada (non si sa mai), posso sempre andare a casa piedi.

Samtosa.

E alla fine ti accorgi che non è poi così difficile. Qualche anno fa avrei imprecato contro i Santi di numero poco definito di religioni, senza neanche dare un senso alle mie parole. Mi sarei incazzata terribilmente e me la sarei portata dietro per giorni, insieme alla frustrazione di aver avuto una spesa non prevista, con un segno meno sul conto, un conto che non è mai stato particolarmente succulento, diciamo.

Ora, alla fine Samtosa. Dopo il primo momento di incazzatura, Samtosa.

Perchè essere consapevoli di se stessi, come lo yoga insegna, non significa essere sempre felici, sempre in pace col mondo e sempre in equilibrio. E allora va bene se ci incazziamo, se siamo tristi e frustrati. Va bene. Ma non attacchiamoci a questo, non facciamo in modo che la sensazione si impossessi di noi e noi di lei.

Un po’ come quando non riusciamo a sollevarci in Sirsasana e crediamo di essere impediti, frustrandoci e frustandoci come se fosse la fine del mondo. Pratichiamo. Poi pratichiamo ancora. Ma poi, lasciamo andare.

Del resto la consapevolezza mica sceglie cosa provare. Mica lo sceglie di incazzarsi o di essere felice. Semplicemente si accompagna a ciò che si prova, nel momento in cui lo si prova, così com’è, senza che la mente ci metta lo zampino e costruisca castelli.

Quindi se si rompe lo smartphone, incazziamoci pure. Va bene. Ma non possediamo quella sensazione. Proviamola, guardiamola come si guarda una coccinella camminare sulla ringhiera del balcone… e poi lasciamola andare.

Al massimo, se mi si ferma la macchina, posso andare a casa a piedi.
E domani è un altro giorno.

Samtosa.

2 risposte a “Come essere un buon yogi se si rompe lo smartphone (e tu non sai perchè)”

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