Sono consapevole del mio tempo, e quindi «sono»

Il parco dietro al castello Sforzesco di Milano è quasi un’isola di pace. Niente palazzi catarifrangenti, niente enjoy che non sai dove parcheggiare, niente spallate dentro i vagoni della metro all’ora di punta.

Al netto dei corridori con le scarpe fluorescenti che girano in tondo, a velocità super sonica – manco stessero facendo una maratona – sembra quasi di stare in campagna. Mi sono girata verso Nicola (il mio compagno) e gli ho detto che una vita così io non la volevo fare.

Non una vita nel parco. Quella l’avrei fatta ben volentieri. Lontano dal pc e dalle mail che arrivano pure nel week end.

Quella che non volevo era una giornata il cui tempo mi era sfuggito dalle dita come sabbia bagnata. Avete presente quando siete al mare e state aiutando il nipotino a fare il castello di sabbia?

Siete sulla battigia, attenti a non farvi calpestare dalla folla. Prendete un pugno di sabbia tra le mani e non avete fatto in tempo a schivare un corridore frenetico (senza scarpe fluorescenti, per fortuna al mare si può correre anche senza) che quella lì (la sabbia) se n’è già andata via. Si è mischiata insieme all’altra sulla battigia e non la riconoscete più.

Ero passata da Nicola quella mattina alle 10. Io non abito a Milano, ma a Torino. Quindi – complice il regionale impuzzolito delle 7.54 – ero in piedi praticamente dalle sei. Dopo un meeting e un pranzo frugale, sono corsa in centro, a un appuntamento per discutere di nuovo lavoro. Un nuovo progetto editoriale. Che poi a me scrivere è sempre piaciuto, scrivevo già all’epoca del cordone ombelicale, secondo me. Questi signori volevano che scrivessi per loro: nuove tecnologie, finanza, startup. Insomma, ciò di cui scrivevo da ormai 3 anni. Mi sembrava una cosa figa. Un nuovo progetto, un nuovo team con cui avrei potuto confrontarmi. Per un attimo, quando stavo tornando verso l’ufficio di Nicola, ho pure pensato di essere fortunata. Non riuscivo più a scrivere molto in quel periodo e devo aver pensato che un nuovo lavoro potesse essere quello schiaffo della mattina presto che ti ributta in piedi senza aspettare nemmeno che ti sgranchisci le gambe.

Sono una giornalista, da un po’ di anni. Molte volte mi sono svegliata pure alle 5 di mattina per scrivere un pezzo o sono andata a dormire alle 2 per lo stesso motivo. Per il lavoro, lo ammetto, ho anche perso un bel po’ di persone care. Ma questa, in realtà, è un’altra storia che fortunatamente fa parte del passato. Forse il fatto che ultimamente abbia scritto di tecnologie, poi, mi ha dato il colpo di grazia. La sfida, la carriera, il successo è quasi come se avessero un’odore. E, secondo me, ce l’hanno davvero. Lo puoi sentire bene ai party che organizzano dopo gli eventi, quelli dove si presentano imprenditori e investitori. Tante cravatte e ben pochi sentimenti, in una gara continua a chi ce l’ha più lungo. Le tartellette al salmone o quelle all’anatra del buffet che, dico, i soldi ce li avete quindi perchè non cercate di essere un po’ più abbondanti nelle portate?

Per qualche tempo mi sono sentita anche eccitata da questi posti. Io che giro in scarpe da ginnastica e vengo dalla campagna pinerolese. E per un momento, ho anche pensato di essere come loro. Cellulare sempre in mano, interviste, meeting, chilometri macinati per cercare di incontrare il politico di turno che sostiene le nuove tecnologie. E una barcata di soldi spesi. Davvero troppi se mi guardo indietro. E io che scrivo di questo e che magari ho pure spinto qualcuno in questo mondo, di proposito. Perchè le parole hanno un peso che nemmeno immaginate. Nonostante le fake news.

Non so cosa è successo poi, in realtà. Mentre camminavo tra i sentieri del parco dietro il Castello Sforzesco e sentivo il calore del sole che tramontava lambirmi le tempie, ho pensato che quello sarebbe stato l’unico momento della giornata che sarei riuscita a ricordarmi. Perchè era l’unico momento in cui ero consapevole del tempo che stavo vivendo.

Cellulare nelle tasche, pc abbandonato in hotel, il progetto editoriale da mettere giù lontano anni luce dalla mia mente. Mentre gli altri momenti manco mi ero accorta che li stavo vivendo. Ricordavo solo la noia del meeting, le cravatte di colori improbabili dei partecipanti, le pareti bianche del nuovo ufficio in cui avrei dovuto trascorrere il mio nuovo tempo, le insegne della metro gialla che mi indicavano l’uscita. E nient’altro. Di 14 ore vissute, mi ricordavo solo questo.

E allora mi sono girata verso Nicola e gli ho detto che quel lavoro lì non l’avrei fatto. Oggi, a distanza di un po’ di tempo, penso di aver scelto lo yoga. Già da allora.

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