Metti un’alba in riva al Gange, al sapore di yoga

L’aria era calda e umida. Si appiccicava alla pelle come una guaina, come quei guanti di lattice che usi per fare le pulizie e per non farti corrodere le mani dai detersivi. In lontananza il rumore di Varanasi, del formicolare delle genti riversate lungo le sue stradine che strette s’intersecano come in un labirinto. Nicola ed io c’eravamo fatti lasciare in prossimità di Mansarowar Ghat dal nostro driver ed eravamo in attesa di fare una lezione di yoga con Siddharth, un tale maestro di yoga, acclamato e riconosciuto in tutta la città eterna e non solo (se non altro per avere uno studio proprio di fronte al Gange).

Le chiacchiere dei pellegrini che s’immergevano nelle acque torbide della Madre Ganga, si confondevano con i versi delle scimmie, giunte dai vicoli adiacenti per cibarsi di alcune bucce di mela abbandonate per la strada. Nicola era entusiasta: non aveva mai visto scimmie dal vivo prima di quel momento ed era intento a osservare come i loro comportamenti fossero letteralmente identici ai nostri. In India, le persone convivono con gli animali, nello stesso ambiente. Le scimmie, in particolare, in India, sono considerate l’incarnazione vivente del dio indù Hanuman (a cui è dedicata anche una posizione di yoga) e una tradizione induista vuole che vengano nutrite ogni martedì e ogni sabato. Ed è molto comune che le stesse persone che un giorno danno da mangiare alle scimmie, il giorno dopo si lamentino che proprio queste hanno rubato cibo e vestiti dalle loro case. Ma… this is India. In India uomini e animali coesistono e per certi aspetti anche le differenze tra ‘uomo’ e ‘animale’ sembrano annullarsi completamente. E questo è incredibile. Ti regala un senso di appartenenza difficile da provare in altre condizioni. Certo, ti può capitare di fare la doccia con le rane – sgattaiolate in bagno da sotto la porta – ma alla fine puoi accorgerti che non è così male. In India giusto sbagliato si fondono, come dicono spesso alcuni maestri di yoga. This is India.

scimmie-varanasi

Ho cominciato ad amare l’India prima di amare lo yoga, restando seduta a tavola, qui, a Pinerolo, un piccolo paesino ai piedi del Monviso, in Piemonte – dove ora insegno yoga. Ho imparato ad amarla attraverso i racconti di Alfredo e Agnese, una coppia amica di famiglia che ogni anno si recava in India per sei mesi quando ancora questo Paese era considerato una meta mistica, terra di hippie, landa desolata dove cercare di liberarsi dalle catene della neo globalizzazione occidentale. Nessuno sapeva bene cosa andassero a fare, quei due, per sei mesi in India, ogni anno. Ora penso di saperlo.
L’India ti entra dentro. E stare lì, in riva al Gange, semplicemente, era già una sorta di meditazione.
Nel periodo dei monsoni il Gange si gonfia considerevolmente, aumentando di molto la sua portata. I ghat, i gradini che spesso ospitano celebrazioni e rituali religiosi, nonché fungono da lavabo per gli indiani, sono completamente sommersi d’acqua. Se la stagione delle piogge è piuttosto violenta, l’acqua può raggiungere anche le vie limitrofe di Varanasi e inondare negozi e abitazioni.

Dopo qualche minuto di attesa, Siddharth è comparso dalla porta del suo studio e ci ha invitato a entrare. Pareti colorate, qualche tappetino abbandonato qua e là e una finestra che si affacciava sul Gange da cui poter ammirare il fluire costante e inesorabile dell’acqua. Sono rimasta eretta, con i piedi nudi che aderivano a un tappetino umidiccio – probabilmente usato da centinaia di persone prima di me senza essere lavato. Ma non m’importava. Dopo due settimane in India non fai più caso a molte cose. Che siano oggetti di cui in realtà non hai bisogno o polvere.

I miei occhi si perdevano nelle acque del Gange, mentre Siddharth cominciava ad estendere le braccia verso l’alto, in un timido accenno al Saluto al Sole. Nell’eseguire la lezione il mio corpo si fletteva ed estendeva con immensa agilità, come modellato a piacimento, fino a raggiungere le pose di equilibrio. Mai mi era capitato di eseguire una posizione come Utthita Hasta Padangusthasana con così tanta stabilità. In quegli attimi, dove le dita della mano afferravano l’alluce del piede e il corpo si estendeva verso l’alto, ogni parte di me collaborava all’unisono. Davanti ai miei occhi il Gange fluiva. Non c’era tremore nella caviglia di terra, ma solo spazio e possibilità. Non c’era Siddharth e neppure Nicola, ma solo l’acqua del Gange che scorreva. E dentro di me io con lei. Un’Unione mai percepita.
Secondo la tradizione, le sue acque – sacre – sono considerate in grado di lavare via ogni negatività. La leggenda narra che il Gange fosse in realtà una bellissima dea, Ganga, figlia del dio della montagna Himavan. Troppo bella per gli esseri umani, gli dei la collocarono nei cieli, dove formò il luminoso fiume di stelle che noi conosciamo come Via Lattea.
Ma nel frattempo, sulla Terra, il re Bhagiratha cercava un modo per espiare i tremendi peccati che la sua stirpe aveva perpetrato nel corso dei secoli, colpe così gravi che solo Ganga avrebbe potuto lavare via. Egli quindi si mise a meditare a braccia alzate e su un piede solo, al centro di un cerchio composto da cinque falò ardenti. Per mille anni restò in piedi, pregando e sottoponendosi alle privazioni. Il dio Brahma, impietosito da quell’ardore, gli domandò cosa volesse e il re Bhagiratha chiese che la dea Ganga scendesse sulla terra come un fiume. Il dio comprese le sue ragioni, ma invitò il re a rivolgersi anche a Shiva. Difatti, le acque di Ganga sanno essere impetuose e possono spazzare via la terra completamente, senza l’intervento divino di Shiva a fermare la loro potenza.
Bhagiratha proseguì quindi la sua meditazione, privandosi gradualmente di ogni cosa, finché non si nutrì solo di aria e di acqua. Il dio Shiva, mosso a compassione, decise che le acque di Ganga potevano scendere liberamente sulla terra e mondare i peccati del devoto, a patto che prima scorressero attraverso la sua chioma, in modo da filtrarle e limitare la loro potenza distruttiva.E così fu. Dal cielo la dea defluì con tutto il suo splendore dalla Via Lattea sulla terra, passando attraverso i capelli di Shiva, seduto nella sua dimora sul Monte Kailasa, sull’Himalaya. E da lì, il fiume che oggi conosciamo traccia il suo cammino attraverso l’India, fino al suo delta.

Stare lì, nello studio di Siddharth, a fare yoga, era un po’ come bagnarsi nelle sue acque. E, così, la lezione è terminata velocemente, nella magia di un attimo nel tempo, un tempo che resterà impresso nella memoria.

yoga-sul-gange

Molte persone mi scrivono dicendomi che non hanno mai fatto yoga, che vorrebbero provare, ma che non sanno esattamente cosa aspettarsi da questa antica disciplina.
Yoga è quell’attimo in riva al Gange, dove la differenza tra te e una scimmia si abbassa notevolmente, quasi annullandosi. Yoga è quel momento in cui la tua mente e il tuo corpo collaborano all’unisono e la stabilità e l’equilibrio esistono dentro di te creando una nuova dimensione. Yoga è libertà, quella che evochiamo pensando all’India, ma che possiamo trovare anche sul nostro tappetino, muovendoci fluidi.
E alle persone che mi dicono che non sanno cosa aspettarsi dallo yoga, io piuttosto chiedo:

«Cosa ti aspetti da te stesso? Cosa desideri?».

Qui sta la chiave. E la risposta. Perchè, come per magia, lo yoga ci aiuta a raggiungere ciò che noi vogliamo raggiungere. E che è diverso per ognuno. Che sia pace, calma, flessibilità, forza, fiducia in noi stessi.

Io, quando faccio yoga, ad esempio, desidero l’India e la stessa identica condizione di pace, umiltà e unione che solo in India riesco a provare. Noi Yogi la chiamiamo Sankalpa, l’intenzione, ovvero la convinzione di poter realizzare ciò che la mente si propone. E succede.

Alla fine, più o meno stremata sul tappetino, appare quella stessa sensazione: me e le acque del Gange.

Perciò chiediti cosa desideri. E ‘sali’ sul tappetino.

Namaste

P.S. – Se sei di Pinerolo e dintorni puoi scrivermi alla mia pagina Facebook YogaValy

Una replica a “Metti un’alba in riva al Gange, al sapore di yoga”

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